Il lungo addio. Cimiteri seriali.

The-OA

Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani
Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tè col pane abbrustolito
T. S. Eliot, Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock

Davanti a qualsiasi forma di narrazione che presupponga uno sviluppo nel tempo la maggior parte di noi cerca, anche solo inconsciamente, il lieto fine, la catarsi, la risposta (alle grandi domande o semplicemente alle domande poste dalla narrazione stessa). Non ci alziamo dalla poltrona del cinema, o di casa, se non vediamo scorrere i titoli di coda. Già poco prima lo possiamo intuire. Il senso della fine, quell’insieme di inquadrature, montaggio, colonna sonora che la anticipa. Ci siamo. Di fronte a un film che “non finisce” ci sentiamo invece truffati. Vale anche per il teatro, vale per la musica: ci sono accordi adatti a finire un giro melodico. Se il musicista chiude con un accordo “strano” a noi rimane quel senso indefinito che ci tormenterà per giorni. Questo anche se ovviamente esistono capolavori (della musica e non solo) che programmaticamente smontano questa esigenza.

Desiderosi da sempre di ordinare il caos, siamo confortati da tutto ciò che risponde al rapporto di causa-effetto. Ross ama Rachel. Alla fine Rachel torna da Ross (perché, come canta il poeta: «Certi amori non finiscono / fanno giri immensi e poi ritornano»). La Divina Commedia non sarebbe tale se Dante, alla fine, non uscisse a riveder le stelle, così come qualsiasi commedia non può definirsi tale senza l’happy ending. L’Odissea non sarebbe il capolavoro che è se Ulisse non tornasse al mare venerato di Itaca e a un finale degno. In questo caso, come per moltissime altre opere, capita così, attraverso quella colossale violenza strutturale e narrativa (lo spettatore la perdona solo perché gli offre quel che cerca) che è il deus ex machina, spesso un finale che cala dall’alto e si innesta, in maniera brutale, sullo svolgimento altrimenti lineare della trama. La mia cara nonna diceva, durante le scene più tragiche di certi western che guardavamo insieme, di solito verso i tre quarti di film: «Tanto poi arriva la cavalleria». E quasi sempre aveva ragione. Eccoci qua. Costi quel che costi il cerchio deve sempre chiudersi, altrimenti da quella frattura può scaturire il caos, il demonio, l’indefinito che divide e terrorizza. Siamo esseri che cercano l’integrità, mentre il diavolo (fin dalla sua etimologia) è ciò che separa. Sarà che i greci avevano capito, se non tutto, molto della natura umana. Dunque siamo tutti figli della Poetica di Aristotele (scusatemi se la sintetizzo orribilmente): ogni racconto ha un inizio, un mezzo e una fine. E le parti devono essere fra loro proporzionate. Sono passati più di duemila anni ma la maggior parte delle narrazioni tradizionali segue ancora questa formula, incredibilmente semplice ed incredibilmente efficace.

Le cose, si sa, non vanno sempre così. I problemi di budget hanno costellato il cielo dell’entertainment, tanto dei blockbuster quanto del cinema autoriale (fatto di maestose navi incagliate fra le secche di produttori e tycoon che hanno perso soldi e interesse. Archiviare alla voce ma chi me l’ha fatto fare). Eppure le serie tv, con la loro episodicità, ci abituano oggi a nuove frontiere della delusione. Perché le serie tv sono contemporanee anche in questo: spesso ci conducono avanti nella narrazione, generosamente ci regalano settimane, mesi, anni di tempo per appassionarci a personaggi, storie, luoghi, colonne sonore, e vengono poi interrotte di punto in bianco. Come si dice, sul più bello.

È di poche settimane fa la notizia che HBO ha cancellato Westworld. Era già successo con The OA, vero e proprio prodigio che Netflix non ha saputo imbrigliare nelle sue logiche commerciali (cancellata dopo soli 16 splendidi episodi). È successo con Sense8 che però ha ottenuto, grazie alle proteste dei fan, un ultimo, lungo episodio che ha concesso almeno quel “senso della fine” di cui parlavamo all’inizio. Meglio di niente, come si dice, ma dal punto di vista narrativo una débâcle. Successe nel 1969 con Star Trek. Il caso di Sense8 è emblematico: in Netflix si sono resi conto troppo tardi dell’insostenibilità di una serie che, ormai, costava 9 milioni di dollari a episodio, con scene girate in nove paesi diversi, e non hanno saputo dare altra risposta ai fan entusiasti se non quella di mandare tutti a casa prima del tempo.

Alcatraz. Glow. My Name Is Earl. The Wilds. The Passage. Santa Clarita Diet. Mozart in the Jungle. Dirk Gently. Revolution. Pitch. BrainDead. Altered Carbon… La lista, che mi ha preparato Carlotta Fiore, e a cui magari dedicheremo un post, è lunghissima e va a costituire un vero e proprio cimitero di serie tv nate e mai portate a completezza. Intendiamoci: include schifezze inenarrabili, ma anche capolavori troppo belli per essere veri.

Non posso non pensare che questo meccanismo è l’antagonista, l’oppositore, del deus ex machina. Uguale eppure così diverso. Ma contrariamente al caso del deus ex machina, qui la violenza narrativa non viene tollerata dallo spettatore. Perché, nella vita come sullo schermo, non ci piacciono le storie senza una fine. Ed ecco allora le proteste, i boicottaggi, le petizioni sui social che ci danno un’idea ancora una volta del “fenomeno” serie tv e di una nuova democrazia del web che ogni tanto, anzi raramente, funziona.

Vogliamo storie che finiscono (tremendamente bene o tremendamente male) e, come bambini un po’ viziati, vogliamo che il finale arrivi al momento giusto. Niente spoiler, grazie. Anche se poi lo spoiler, così come il mancato finale, potrebbe in realtà farci bene, potrebbe costituire una vera e propria educazione, artistica e sentimentale. Ci avete mai pensato? Ma di questo, magari, parleremo un’altra volta. Per ora lasciamo in sospeso il finale, sperando che la nostra decisione non crei troppe polemiche.