L’inutilità della serialità. Walter White, le anime incendiate, l’avvoltoio e la carogna.

Breaking-Bad

L’incontro-scontro fra tradizione e innovazione è da sempre uno degli snodi su cui si innesta, a prescindere dalla forma d’arte, qualsiasi tipo di discorso critico. Anche al giorno d’oggi, in cui da più parti si afferma che oltre a Dio sia morta anche la critica, almeno come l’abbiamo intesa fino alla penultima ora del Novecento, è possibile rintracciare nei frammenti del “discorso” (più o meno autorevole e consapevole) raccattato sui social network i punti di vista di volta in volta scandalizzati, entusiasti, ironici o cinici e chi più ne ha più ne metta di chi si pronuncia “a favore di” o “contro” il cosiddetto “nuovo”.

Non è passato molto tempo da quando un amico mi disse: «Tanto lo sai che le serie tv sono una perdita di tempo, vero? Ne sei consapevole?». Risposi con un silenzio imbarazzato, poi si parlò d’altro. Eppure l’accusa di costituire una “perdita di tempo” interessò, in fase di esordio e non solo, anche il cinema. Ancora oggi non sarebbe difficile sostenere, con un po’ di coraggio e le fonti giuste, o magari citando Flaiano, che il cinema non è arte, bensì qualcosa di effimero, che passa. Per molti, insomma, una perdita di tempo. E ricordo quell’illuminante stralcio di intervista a Martina Testa che per me sanciva e ufficializzava qualcosa che intuivo già, ma che forse non avevo il coraggio di accettare, a proposito di un’altra forma d’arte che per la maggior parte delle persone è senza dubbio “una perdita di tempo”:

«Poi, anche se sono impedita a giocare ai videogiochi, guardo la gente giocare. Trovo che sia una forma di intrattenimento pazzesca, mi dà un piacere, non dico pari a quello del cinema, ma quasi. E devo ammettere che se quando avevo 18 anni ci fosse stata la PlayStation3 con giochi come The Last of Us, e la sua suspense, francamente col cazzo che avrei passato tutto quel tempo a leggermi Baricco.»

Certo. The Last of Us, ma anche i tre capitoli di The Witcher (videogioco partito da una serie di acclamati romanzi e arrivato, non a caso, alla serie tv con Henry Cavill che noi amiamo proprio perché non si vergogna della sua passione per World of Warcraft) per arrivare a quel genio dell’intrattenimento videoludico che è Hideo Kojima e a capolavori quali Metal Gear Solid V o Death Stranding. “Prodotto”, quest’ultimo, dietro cui si cela uno sforzo narrativo ed espressivo fondante, esplosivo (qui il protagonista ha le sembianze di Norman Reedus – il Daryl di The Walking Dead – e l’antagonista quelle dell’eccezionale Mads Mikkelsen). Kojima, intelligentemente, con la stessa intelligenza con cui De André, citando Benedetto Croce (ed eccolo lì, ancora Croce, lo stesso che servirà a molti pensatori italiani e non solo per affermare che il cinema non è arte), scriveva che lui non era un poeta ma un cantautore, affermerà che i videogiochi non sono una forma d’arte. Eppure, a noi il dubbio resta

Come il cantautorato, come Death Stranding, come i fumetti e le graphic novel, come i romanzi di Stephen King, come i giudizi agrodolci della critica sui film di Sergio Leone, come il rock’n’roll, anche le serie tv hanno un passato e un presente ingombranti e travagliati, e niente mi fa pensare che il futuro sarà migliore. Non ho le conoscenze né lo spazio per addentrarmi in una storia delle serie tv, ma penso sia evidente a tutti che la qualità si sia alzata spaventosamente, così come il coinvolgimento di attori, registi e di tutta l’équipe di produzione. Dal “telefilm” a Breaking Bad il salto è stato progressivo ed enorme. La serie tv ha fatto come la nave di Teseo, sferzata dalle correnti e dalle maree si è trasformata lentamente e radicalmente nel corso del tempo. È stato, e sarà ancora, un viaggio pazzesco. A noi resta il senso del paradosso. A noi resta da capire se oggi la serie tv è ancora quella che conoscevamo o si è fatta altro.

Quel che è certo è che a differenza di quello che succedeva con Magnum P.I., Baretta, Chips o Hazzard (prodotti intesi come puro intrattenimento, al pari del feuilleton) intorno alla serialità contemporanea sono nate chiese di adepti in adorazione, critici perplessi, inquisitori incazzati e peccatori in preda ai sensi di colpa, detrattori che ancora affermano, stracciandosi le vesti, che sì, insomma, ma come fai a non accorgertene cazzo, ci hanno messo un bel fiocchetto sfavillante ma dentro la scatola c’è ancora lui, il caro vecchio feuilleton, con i suoi personaggi tagliati con l’accetta, le trame preconfezionate, i colpi di scena un tanto al chilo e il caro vecchio happily ever after. Eppure, mai come oggi se ne parla. Se ne parla come si parla dei grandi fenomeni, dei trend del momento: alle cene, sui social, in tv, sui quotidiani… se ne parla con cognizione di causa o senza saperne abbastanza, ma se ne parla.

E non a caso, come per ogni espressione artistica che si trasforma in moda, c’è chi continua a metterci l’anima e chi sceglie di cavalcare l’onda. Ci sono, nei videogiochi come nelle serie tv, nella musica come nel cinema, i brocchi e i purosangue, le anime incendiate e gli avvoltoi in cerca di una carogna da spolpare. Eppure lo sento, il mio amico, che mi ribadisce che oggi le serie tv sono, nel loro modo di essere ogni volta perversamente, ostinatamente diverse le une dalle altre, tutte uguali, perché seguono un algoritmo. Di questo si parla e si parlerà ancora molto.

Ma questa non può essere tutta la verità. Se esistono capolavori, esperienze artistiche fondative come The Leftovers o Dark oppure serie tv con tempi comici da tener testa a Billy Wilder (Seinfeld o Parks and Recreation), qualcosa deve pur esserci. Qualcosa c’è.

Lo so, il mio amico non sarà soddisfatto di questa mia excusatio non petita. E allora propongo di tornare a fare come facevamo una volta. Per cercare di riappacificarci chiamerò in aiuto il mio amato Montale e il suo celebre discorso in occasione del Premio Nobel. Che secondo me, con un po’ di elasticità da parte di entrambi, e un pizzico di gusto per il sacrilego, potremmo applicare anche alle serie tv. Montale classificò in quel giorno di vittoria la poesia come “un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo”. Ecco. Andiamo a farci un paio di birre in quel posto dove andavamo da ragazzi e poi guardiamoci insieme una puntata di The Office, una a caso, tanto con quel capolavoro incredibile non puoi sbagliare. Una risata, visti i tempi, non ci farà male. Dell’inutilità della serialità parleremo poi.