Six Feet Under ovvero la morte del telefilm

Six-Feet-Under

You can’t take a picture of this.
It’s already gone.

Quante volte si può piangere vedendo gli stessi tre minuti di una serie tv terminata più di quindici anni fa? La mia risposta è: all’infinito.

Per chi non ha mai visto Six Feet Under è un delitto doverne parlare a partire dal finale, ma è nel finale che la serie ottiene la sua consacrazione e guadagna il merito di entrare nei personali podi, nelle classifiche emotive o critiche, perché la chiusura del cerchio di Six Feet Under è da manuale, se i manuali fossero poesia.

Claire Fisher non è il nostro personaggio preferito: è la sorellina di cui ci preoccupiamo, che non siamo certi riuscirà a evitare il deragliamento della propria vita. Che vuole fare l’artista e troppo spesso meriterebbe un bel paio di schiaffoni. Ma è proprio con Claire che ce ne andiamo, perché a Nate abbiamo detto addio pochi giorni prima, non senza stupore, in una puntata qualsiasi a pochi metri dall’arrivo. Pensavamo che il nostro viaggio coincidesse con il suo dal giorno in cui siamo atterrati all’aeroporto, lo stesso giorno in cui ci siamo ritrovati a fare l’amore con una donna appena conosciuta che sarebbe diventata, per molti versi, la donna della nostra vita.

Invece è con Claire che saliamo in macchina, inseriamo il cd nell’autoradio e già alle prime note, quando ancora pensiamo che il finale sia tutto lì, siamo pronti ad abbandonarci alla commozione. È in quel momento che la fine inizia. Con la vita prima e con la morte poi, inaspettata, prepotente, protagonista come è sempre stata.

Spesso, terminando una serie che abbiamo seguito con l’affetto che si riserva ai propri amici, resta la domanda a cui vorremmo trovare risposta: «E poi cosa succede?». Non è il caso di Six Feet Under. Nel rispetto della filosofia che vede la morte protagonista al pari (o forse più) della vita, i momenti finali dell’ultimo episodio coincidono con i momenti finali dell’esistenza dei suoi personaggi.

Arrivati al crescendo di Breath Me siamo in un mare di lacrime, perché Six Feet Under risponde alle domande che non sapevamo avremmo posto, ma di cui avevamo un inconsapevole bisogno. La tristezza compensata dalla serenità, nella morte di Ruth circondata dalla famiglia; in quella di David, improvvisa, durante un pomeriggio di sole. La cruda realtà nei colpi di pistola che segnano gli ultimi momenti di Keith, sorpreso da una rapina. La liberazione mista a disperazione nello spegnersi di Brenda davanti al fratello Billy, da cui non si è mai allontanata. In un istante se ne va anche Federico Diaz, colto da un infarto. In questa breve Antologia di Spoon River siamo sopraffatti dalla visione del tutto e ci ritroviamo a fissare gli occhi di Claire, ultima ad andarsene, ma improvvisamente di nuovo giovane, di nuovo adesso, ora che è tutto ancora da scrivere, nella semplice e perfetta metafora di un’automobile che sfreccia lungo la strada che si perde nell’orizzonte.

In un periodo in cui la serialità televisiva veniva ancora liquidata come puro intrattenimento, distante dall’idea di forma d’arte che si è andata confermando negli anni successivi, Six Feet Under ha fatto un passo nella direzione che ci avrebbe portato ad ammetterne il valore. Ha osato, scegliendo una tematica che nelle altre produzioni era sempre stata marginale – quasi un obbligo da adempiere nel modo più indolore possibile – e ponendola al centro con ironia e dolcezza, con stile e delicatezza, bilanciando lacrime e sorrisi, smontando i dubbi e le paure.

Non è la morte da serie fantascientifica, né quella onnipresente a cui anni dopo ci avrebbe abituato Game Of Thrones della stessa HBO. Non è la morte giustificabile: è quella nuda, vera, inspiegabile e silenziosa. Non è la morte da medical drama: non ci sono errori, non c’è una motivazione. Non c’è un piano più grande. È una fotografia, così come sono fotografie le pagine dei romanzi di Carver. Vita, morte, nient’altro. La poetica che ne emerge non è fatta di espedienti ruffiani, è la bellezza delle piccole cose che, ci ricorda costantemente Alan Ball, durano un secondo o un secolo, ma prima o poi svaniranno per sempre e non ci sarà più nessuno a ricordarle.

Nonostante questo (e qui si compie la magia) Six Feet Under non getta nello sconforto, nella paranoia. La risposta a Six Feet Under è un’irrefrenabile voglia di vivere, perché anche se l’accento è sulla morte, quello che insegna (in ogni puntata, in ogni secondo) è la vita. Magia, appunto.

«Ma non succede mai niente» è la critica mossa più frequentemente, la più difficile da contestare. Six Feet Under, specialmente nella sua prima stagione, è estremamente lenta e nella propria lentezza trova orgoglio, quasi volesse metterci alla prova. È una stagione priva di colpi di scena, dove la musica è quasi assente, una lunga introduzione che richiede estrema fiducia. Eppure, qualche anno dopo, queste stesse caratteristiche hanno fatto sì che una serie della AMC con protagonista un uomo affetto da cancro ai polmoni venisse osannata da pubblico e critica, diventando il simbolo del valore artistico della serialità televisiva. Senza nulla togliere a Breaking Bad, quello che Walter White abita è un mondo in cui abbiamo già vissuto con Nate e David, Claire e Ruth.

Se improvvisamente la memoria collettiva venisse cancellata da un dispositivo in stile Men in Black e la HBO trasmettesse Six Feet Under per la prima volta, nel giro di una settimana indosseremmo tutti le magliette delle pompe funebri Fisher. Se Six Feet Under facesse oggi la propria comparsa, il suo potere magico non risentirebbe nemmeno per un istante di tutto quello che ci sarebbe stato prima, perché, oltre a ciò che è stato detto, oltre alla tematica, alla base di Six Feet Under ci sono personaggi indimenticabili e una scrittura senza difetti. Ambientazioni impeccabili, anche osservandole con la lente di ingrandimento, e un ventaglio di argomenti che in molti si limitano a sfiorare, qui scandagliati fin nei più profondi abissi.

Six Feet Under è quella serie che a volte ci dimentichiamo di annoverare tra le cinque, dieci migliori, perché è arrivata troppo presto, perché troppe ne abbiamo amate dopo. Serie che ricordiamo meglio, che citiamo a memoria. Serie di cui possediamo una tazza, un ciondolo, una felpa o un portachiavi.

I personaggi di Six Feet Under non indossavano t-shirt come quelle di Sheldon Cooper e non frequentavano locali come il Central Perk. Non solo, ma indubbiamente anche per questo, il loro ricordo fa nascere in noi un moto di tenerezza e nostalgia; lo stesso che ci prende quando ripensiamo a un amico, a un amore che non fa più parte della nostra vita, ma di cui non ci dimenticheremo mai. Continueremo a ricordarli non per gli abiti o per i luoghi in cui li abbiamo incontrati, ma per il modo in cui sorridevano o nascondevano la commozione, per l’andatura che assumevano nella corsa.

Per quei tre minuti.