Vinyl, il solco sporco della musica

Vinyl

Are we strangers now?
Like rock’n’roll and the radio?
Ray La Montagne

In principio era il rock’n’roll.

Il suo Gesù fu Elvis Aaron Presley, i suoi apostoli furono Richie, Lou, Jim, Bob, Eddie, Jerry, Johnny, Mick, i suoi profeti Mr. Bo Diddley e Sir Robert Plant.

L’ultima vera religione di massa.

Ma quello che nessun cultore vi dirà mai, se non il cultore del rock’n’roll, è che questa religione è fondata sull’imperfezione.

Poeti mancati. Cantanti che con un po’ di studio sarebbero potuti diventare eccellenti baritoni al Metropolitan di New York. Chitarristi che inventarono distorsioni, flanger, wha-wha, tutto pur di storpiare quel suono classico, quello che un fossile con gli occhiali ha cercato di insegnarti a scuola, e che hai odiato. Io, tanto per dire, prima di diventare un chitarrista, alle medie suonavo Frère Jacques con il flauto.

Ma il rock è arrivato. Con il suo esercito di militari dalle carriere interrotte, avvocati, imprenditori, cuochi, cameriere, prostitute, spacciatori, donne in carriera, suore e preti, pugili… When love comes to town, cantano Bono e BB King in Rattle and Hum. Ecco: l’amore arriva in città e ti sconvolge la vita, ti toglie le certezze e ti butta in mare aperto. Altrimenti a cosa servirebbe? Per la consolazione esistono l’Opera e le sue arie. Là ci darem la mano. Può darsi. Ma oggi si suona il rock’n’roll.

Dunque, sulla serie Vinyl è già stato detto tutto. Che è imperfetta lo sappiamo, così come sappiamo che non ha detto niente di nuovo. Sappiamo anche che è stata cancellata, e questo, a noi che amiamo il rock’n’roll, ci ha fatto incazzare parecchio. Potevo dirlo in modo più letterario, ma ho scelto la modalità r’n’r. Cancellata. Criticata. Derisa.

E non poteva essere altrimenti, perché la serie prodotta da due grandi vecchi come Scorsese e Jagger, entrambi da sempre parte e amanti del rock, non poteva che essere un atto d’amore, e l’amore (almeno dai tempi della Bibbia) divide le persone. Dunque ecco che cosa sanno Martin Scorsese e Mick Jagger. Ecco cosa hanno provato a dirci, spiegandocelo con un ritmo in quattro quarti, semplice come il battito cardiaco. Se poi qualcuno chiama “banalità” la semplicità, non è affar mio.

Il rock’n’roll è un uomo che ha da poco passato la quarantina. Nel sangue ha la voce di tre, quattro popoli diversi. Ha un passato (non poi così passato) da cocainomane, anche se per amore sta cercando di venirne fuori. È impulsivo, pieno di energia. Ha una faccia da schiaffi, ma naturalmente ha intorno a sé solo donne bellissime, sempre piene di problemi, che nei giorni dispari lo lasciano e nei giorni pari se lo scopano, comunque non hanno mai smesso di amarlo. Sembra sempre vestito apposta per infastidire i borghesi e i colletti bianchi di Wall Street. E che dire del nome. Un nome che ispira simpatia o che invita all’insulto. Ma, nomen omen, se lo guardi da vicino, se traduci quella parola che ti arriva da una lingua antichissima, storpiata, masticata da milioni di bocche nel corso del tempo, il nome ti si spalanca davanti, ti fa vedere mondi, ti fa ascoltare voci che ti fanno bollire il sangue, come non ti succedeva da anni.

Buffone dagli occhi sempre lucidi, cuore che parla, non sa fare altro che entusiasmare con le sue visioni o farsi compatire per i suoi errori, che non sono gli errori perfidi, machiavellici dei grandi manager o delle grandi multinazionali, ma gli errori ingenui di un adolescente fatto di coca o ubriaco marcio. Anche se con parole diverse, racconta sempre la stessa storia. Dopo essere quasi morto di noia, di dolore, d’indifferenza, per una disgrazia assurda come un edificio che ti crolla addosso durante un concerto, ha capito l’unica cosa importante. Una cosa che i discografici dimenticano sempre più spesso (e che un musicista, semplicemente, non può dimenticare se vuole continuare a definirsi tale, e lo stesso vale per scrittori, pittori, poeti). Non fai il rock’n’roll per diventare ricco e, un giorno, vendere tutto ai primi quattro tedeschi teste di cazzo che si presentano con una valigia piena di soldi. Suoni, ascolti, produci il rock’n’roll perché la musica, un giorno lontano di tanti anni fa, ti ha raccattato da terra e ti ha salvato la vita. È una delle poche certezze che hai. Sei stato Saul sulla via di Damasco, ora sei pronto per gridare al mondo il tuo amore.

Si può dire quello che si vuole, ma dando vita a Richie Finestra, Scorsese & Co. hanno imbastito la prosopopea del rock. Il rock è Richie Finestra, senza possibilità di sbagliarsi, ed è per questo che abbiamo amato Vinyl. A dispetto del figlio di Jagger, delle cadute di stile, dei buchi di sceneggiatura, degli anni Settanta troppo Settanta, e di tutte quelle cose che potrebbe dirvi qualsiasi esperto di serie tv. Il rock è una splendida imperfezione, è la voce di Lou Reed, un grido, un mostro di Frankenstein costruito rappezzando insieme epoche e stili diversi, maledizioni e invocazioni, i versi dei poeti classici e le bestemmie degli adolescenti, il blues delle radici e lo swing, i sogni bizantini di Jim Morrison e le buffonate dei Clash. Scorsese e Jagger hanno fatto entrare il mostro, tutto intero, nel corpo e negli occhi di Bobby Cannavale, gli hanno costruito intorno una serie.

Hanno fatto muovere il mostro per dieci puntate, e il mostro si è mosso ballando e inciampando, spaccando la chitarra di Bo Diddley, tirando coca, scopando e dannandosi per amore, entusiasmandoci con le sue parole e rendendosi ridicolo con le sue canottiere da italiano imbolsito, mentendo e confidandosi ai fantasmi della notte, giocandosi una fortuna ai dadi, soffrendo con noi e per noi, soprattutto raccontandoci, ancora, della musica che salva la vita. Della musica che, dopo tutto, ti fa sentire vivo.

Naturalmente, dal punto di vista tecnico-narrativo, Scorsese e Jagger hanno clamorosamente mancato il bersaglio, dimostrando che l’immortalità non è di questo mondo e che il talento è una vena d’oro: prima o poi si esaurisce. Jagger ha toccato il fondo inventandosi un sé più giovane, per giunta con il suo stesso cognome, nel disperato tentativo di far correre indietro il tempo. Naturalmente non ce l’ha fatta, perché di Mick Jagger ce n’è uno solo, e a quanto ci risulta è morto intorno alla fine degli anni Settanta.

Ma tutto questo fa parte di un unico disco, un concept album che prevede la disperazione e la gloria, baratri di nera solitudine e, alla fine, la redenzione e la luce.

Del resto non bisogna mai dimenticarsi che, almeno una volta, siamo stati tutti come lei, come Jenny. E dal cielo possono piovere critiche e insulti a volontà, ma noi non dimentichiamo che, un giorno lontano, la musica ci ha abbracciati forte, traendoci fuori dal mare in burrasca. Pazienza se qualcuno non l’ha capito, né lo capirà mai.

Jenny aveva solo cinque anni quando si rese conto che alla radio non trasmettevano niente, assolutamente niente. Poi una bella mattina si sintonizzò su una radio di New York City, restò di sasso per ciò che sentì. Iniziò a ballare su quella splendida musica, e in quel momento la sua vita fu salvata dal rock’n’roll. Perché a dispetto dei calcoli, delle mutilazioni, delle imperfezioni… potrai sempre ballare al ritmo di quella stazione.

(In loving memory of Lou Reed).