Superstore, o di come un nonluogo possa contenere moltitudini

Superstore

Superstore non è una di quelle sitcom che riescono a piacere a tutti. Non ha la brillantezza di Seinfeld. Non ha il palleggio continuo tra risate e pugni allo stomaco di Scrubs. Non ha i personaggi che vorresti fossero tuoi migliori amici come Parks and Recreation. Non ha la visionarietà delirante di Community né quella intima e routinaria di The Office. Non ha nemmeno il perfetto e calibrato senso della continuity di How I Met Your Mother (ma noi non ne parliamo più), o il product placement di The Big Bang Theory. E non ha nemmeno Jake Peralta.

Potrei partire dal macro e fare un discorso luuuuuuunghissimo che inizia da una catena di grandi magazzini con negozi in tutta l’America e oltre, per arrivare al nocciolo della questione. E invece no. Vi basti sapere che:

  • il tutto è ambientato in un grande magazzino (il titolo in effetti poteva tradire la cosa) della catena Cloud 9, nello specifico quello di Ozark Highlands a Saint Louis (Missouri);
  • e ruota attorno alle persone che ci lavorano: sogni, aspirazioni, gioie e dolori, sfide e sfighe, amori, scappatelle, invidie.

A questo punto nella vostra testa si sarà formulata la domanda: «Perché mai dovrei guardarlo?».

Io, onestamente, non so nemmeno SE dovreste guardarlo. Ma, senza dubbio, mi bastano pochi secondi per dirvi perché mi è piaciuto guardarlo. Nello specifico, pochi secondi di ogni puntata.

Il motivo per cui vale la pena di guardare Superstore è il modo geniale (sì) e innovativo (almeno, che io sappia) con cui Justin Pfitzer è riuscito a fare una cosa molto difficile: fare worldbuilding in una serie realistica, contemporanea, ambientata interamente (salvo una manciata di episodi) in un grande magazzino. Il nonluogo per eccellenza, sradicato dal tempo e dallo spazio. Sappiamo ovviamente che il tempo scorre, le giornate si susseguono, i protagonisti tornano a casa la sera e si presentano al mattino, ci sono le inevitabili puntate di Natale e altri tropi situazionali. Allo stesso modo sappiamo che esiste un mondo al di fuori del Cloud 9, e in rari casi lo vediamo anche; il più delle volte, però, rimane in secondo piano, a far da tappezzeria.

Quello che, sulla carta, si presenta come una capsula di Petri paralizzata in un eterno presente contiene però un’intera scuderia di cavalli di Troia.

Grossomodo a metà della prima puntata, a un certo punto la camera indugia su una corsia che a occhio potremmo chiamare “stoviglie e scope elettriche”. Due avventori stanno pigramente passando in rassegna un esercito di padelle e pentole, convergendo l’una verso l’altro fino a che i loro carrelli si scontrano. A un sorriso imbarazzato segue un goffo tentativo di aggirarsi, che si risolve invece nell’ennesima collisione. L’equilibrio s’incrina, i sorrisi si induriscono e le carrellate si ripetono con foga e intenzionalità sempre maggiori. Eeeeee stacco! Si torna alla trama principale.

Superstore

Ma cosa abbiamo appena visto?

Abbiamo assistito a un’incursione del mondo esterno. Giusto per una manciata di secondi. Ed è solo il primo di tanti intermezzi che si concentrano sugli avventori del Cloud 9, spostando l’attenzione su quei punti che sono lontanissimi dalla trama pur essendovi di fatto adiacenti, tralasciando le vicende dei protagonisti e facendo di nuovo scorrere il Tempo all’interno del grande magazzino. Che è come dire reinserirlo nell’ordine normale delle cose.

Da lì in poi, ogni puntata conterrà una di queste finestre sul mondo reale. Bizzarri rifornimenti, scherzi esilaranti, situazioni ammiccanti, disastri involontari (e volontari), animali in libertà, madri senza ritegno, esasperazioni della realtà al limite del paradossale. Un compendio di tutte le idiosincrasie della società americana, ma potremmo tranquillamente dire della società occidentalizzata (perché siamo stati tutti in un centro commerciale e sappiamo bene quali livelli possa raggiungere lo zoo sociale).

Intermezzi comici, romantici, surreali, deliranti, a volte anche un po’ inquietanti; brevi flash pubblicitari sulla “vita reale”, in un mondo in cui la fruizione televisiva si è praticamente sbarazzata delle pubblicità (ma non diciamolo troppo forte).

Se volete, potete trovare tutti gli intermezzi remixati in un unico video su YouTube, ma non aspettatevi di ottenere lo stesso effetto.

È sufficiente, questo, per guardare oltre cento episodi di una serie che probabilmente non vi farà saltare sulla sedia?

Non lo so, Vostro Onore. Probabilmente no, a meno che anche voi, come me, siate fissati con le struttura narrative molto brevi, il rapporto tra micro e macro e la twitterature. Ma penso si tratti di una scelta stilistica interessante, che fa guadagnare qualche punto alla serie e che forse – e dico FORSE – potrebbe  preservarla al sicuro dal dimenticatoio per qualche anno in più.