The Bear, stagione II. Un pugno strofinato sul cuore.

The Bear

Spoiler Alert | questo articolo contiene spoiler sulla seconda stagione di The Bear.

The book of love is long and boring
And written very long ago
It’s full of flowers and heart-shaped boxes
And things we’re all too young to know

Stephin Merritt, The Magnetic Fields, The Book of Love

C’era una volta, in un paese lontano, un principe.
E come si chiamava quel principe, chiederanno i nostri giovani lettori? Amleto?
No, rispondo io. Quasi.

Il principe aveva un fratello dall’anima grande come un intero paese ma i nervi fragili come ragnatele, entrambi ereditati dalla madre. C’era una volta un padre assente (anzi, il suo fantasma) sostituito da un patrigno dal cuore di pietra. C’era una volta una sorella, una donna fatta e finita ma ancora un po’ bambina, sempre alla ricerca dell’altra sé, cioè di sua madre.

Si sviluppa quasi come una favola contemporanea la seconda stagione di The Bear, un capolavoro granitico che si regge sui fragili, incerti equilibri che contraddistinguono ogni famiglia del mondo occidentale e su una verità semplice e colossale: esistono famiglie di sangue ed esistono famiglie che si formano per assonanza, con gli sguardi, gli abbracci, le esperienze, forse con la parola. Ancora una volta, come già per la prima stagione, il tutto si svolge seguendo il doppio filo dei legami e soprattutto quello (maltrattato, torturato, contorto e mai spezzato come un vecchio filo del telefono) della comunicazione.

Carmen Berzatto si ritrova per caso con una fiamma dei tempi del liceo. Si innamora di lei appoggiato al frigorifero di un supermercato, sentendola parlare. Perde la testa proprio nel momento in cui servirebbe per la messa a punto del nuovo ristorante. Marcus vola a Copenaghen, impara cosa significa “essere” un pasticcere e come si salva la vita di un uomo (che sa dirti grazie anche se non parla la tua lingua). Richie segue il suo percorso da crisalide a farfalla e, in una puntata splendida e memorabile, compie un salto di paradigma che lo trasformerà completamente, con un nuovo tipo di coraggio nel cuore e un nuovo vestito addosso. Sydney assaggia i piatti di tutta Chicago, diventandone così l’anima. Sugar scopre di aspettare un figlio.

In tutto questo, al centro della stagione, come si incastona un rubino rosso sangue al centro di un diadema, si insedia la puntata che, finalmente, offre un panorama della famiglia Berzatto, con una Jamie Lee Curtis e un Bob Odenkirk indimenticabili e una sceneggiatura a prova di bomba. Puntata dall’impianto teatrale, praticamente tutta girata fra la cucina e la sala da pranzo, unico palcoscenico possibile per i Berzatto. Puntata che ha il compito di ammonire e di ribadirci, con estremo dolore, come molte delle scelte che crediamo di compiere ogni giorno (e che compiremo nei secoli a venire attraverso le nostre azioni e quelle dei nostri figli) derivino in realtà dalle scelte dei nostri genitori. E quelle dei nostri genitori dai loro genitori e così via, in una sorta di mise en abyme che, se ci pensi, ti toglie il pavimento da sotto i piedi.

La seconda stagione di The Bear ci ricorda che siamo tutti gettati dentro un gigantesco paiolo, siamo tutti dei casini ambulanti. E che nel caos delle nostre esistenze imperfette non è mai troppo tardi per parlarsi, è vero. Ma se, parafrasando Tommaso d’Aquino, la parola è l’angelo dell’intelligenza, come tale prima o poi devi inginocchiarti per pregarla. Se è una spada prima o poi devi aprire la mano per impugnarla, se è una lanterna devi bruciare qualcosa di tuo per accenderla, se è uno scudo devi avere nervi e muscoli abbastanza forti per poterla imbracciare. Altrimenti tutto potrebbe andare a ramengo.

E così il salto della fede verso la parola che salva è anche un salto del cuore, uno di quei salti che fa quando sei troppo stressato da troppo tempo, oppure quando sei innamorato, o in preda a un attacco di panico. Perché in mezzo, fra te e il mondo, c’è proprio la parola, quella maledetta parola che non ne vuol sapere di farsi domare. Come quando ti metti in testa di parlare, di parlare davvero, con i tuoi figli dopo essere stata faticosamente, dolorosamente, una madre di merda per tutta la vita. Come quando sei cambiato, cambiato per davvero, ma siccome non riesci a dirlo decidi che da domani indosserai tutti i giorni lo stesso vestito, scuro ed elegante. Come quando sei una ragazza nera e vivi in una delle città più razziste degli States, eppure scegli di diventare uno chef stellato. Anche quando tuo padre, con tutto l’amore del mondo, vorrebbe trovarti un posto come moviere all’aeroporto. Come quando vuoi chiedere scusa, ma siccome né una madre né un padre ti hanno mai insegnato come si fa, un modo te lo inventi tu e (naturalmente) lo fai con il linguaggio di chi non può parlare, ti strofini un pugno sul cuore. Come quando ammetti con te stesso che, forse, il lavoro su cui hai investito tutto, sublimando l’amore che non c’è, la famiglia che non c’è, un fratello che non c’è, forse non era così importante. O almeno che era importante quanto un bacio. Un bacio che per una volta, finalmente, risveglia un principe e non una principessa.

E da quelle parole non dette o dette a metà, surrogate, da quelle frasi andate di traverso può nascere la Grazia. Ma come sempre da quel crocevia passa anche il popolo di chi non ce la fa, la contea degli sconfitti, degli imperfetti, dei Giuda, di chi non ha abbastanza coraggio per parlare e allora sceglie di baciarti sulla guancia. Di quelli destinati a fallire o, forse, votati a spegnersi per far risplendere gli altri. Ed è infatti un’immagine iconica e totalizzante, indimenticabile, quella della madre che verso il finale di stagione si ferma a un passo dalla porta del nuovo ristorante, da quel monumento intitolato alla storia dei Berzatto e al loro libro fatto di cibi e ricette, scegliendo, o credendo di scegliere, di non stringere le mani dei propri figli, tornando ancora una volta alla vecchia parte, indossando ancora la maschera della strega, della matrigna, in preda all’antica maledizione. La matrigna incapace di fare altro se non di consegnare una missiva allo scemo del villaggio, un messaggero dalla testa leggera e dal cuore grande, anche lui, perché The Bear è una serie di immensi cuori che battono e di bocche che non parlano, uno scudiero maldestro che a sua volta non sa fare altro che tornare al castello dalla sua regina e piangere, balbettando con disarmante onestà il suo amore. Passando così, d’un tratto, fra le schiere di quelli che invece ce la fanno, di quelli che, a modo loro, con la parola hanno fatto i conti.

Guardando il finale di The Bear ho pensato alle immense dighe nelle nostre teste incasinate, ho pensato alla marea di parole che, ogni giorno, non abbiamo il coraggio di dirci. Ho sognato come non mai, vicino a Carmen Berzatto, di uscire più spesso dalla cella frigorifera in cui mi rintano, inventandomi una maniglia rotta, un malfunzionamento qualunque. Ho sognato uomini e donne che ritrovano il coraggio di dirsi certe parole senza la rassicurante protezione del ghiaccio che ci portiamo dentro. Ho pensato alle maschere indossate in fretta e furia, ai gesti impacciati, agli sguardi in tralice che ogni giorno indossiamo non perché siamo cattivi, ma perché, semplicemente, non conosciamo ancora le parole giuste. Ai pugni che ogni giorno ci strofiniamo sul cuore, sperando che basti.