Spoiler Alert | questo articolo contiene spoiler sulla prima stagione di The Bear.
The Bear è la storia di un trauma. Il trauma di Mike Berzatto, il fratello, l’amico indimenticabile, e del suo suicidio. E poi è la storia di quel trauma che si allarga come una malattia contagiosa, come una chiazza di petrolio si allunga per prendere chi resta.
È per sublimare questo trauma che Carmen “Carmy” Berzatto, uno dei più giovani e talentuosi chef d’America, fa quello che fa. Carmy ha da poco ereditato il The Original Beef of Chicagoland, il ristorante di Mike (con tutto il grasso che ne incrosta la cucina e una lista di debiti altrettanto permanente). Carmy che non si dà pace, si butta anima e corpo in quel ristorante. Capiamo quasi subito che la sorda determinazione per riportare in carreggiata un ristorante nella periferia di Chicago è anche qualcos’altro, non c’è solo la testardaggine e l’immensa passione per la cucina. Pulire quelle superfici d’acciaio troppo consumate, quei pavimenti in linoleum che non verranno mai davvero smacchiati, riparare quell’impianto elettrico disastrato, quella tubatura esplosa di un cesso, significa in realtà lavare il corpo del fratello, restaurarlo, prendersi cura della sua anima. In un certo senso, pregare per lui. Una corrispondenza d’amorosi sensi che, per una famiglia che fin dall’infanzia ha scelto il cibo come forma di comunicazione, si esprime non attraverso una lapide ma con le ricette, gli ingredienti. Ed è una preghiera faticosa, che consuma le ore e il corpo, che ustiona la pelle con una teglia tirata fuori dal forno troppo alla svelta, la lacera quando ti sfugge di mano quel coltello impugnato con rabbia. Realizzare (di nuovo) quella ricetta, la ricetta di famiglia, assume un valore diverso se la fai non per festeggiare ma per ricordare chi non c’è più.
The Bear, oltre a essere splendida, è una serie molto realistica. C’è tutta la fatica del lavoro in un ristorante, uno degli impieghi più consumanti e stressanti dei nostri tempi. Ci sono le ordinazioni sbagliate, i colleghi disfunzionali, i cambi di menu all’ultimo minuto, il talento e la sua mancanza, due elementi che troverai mescolati in parti diverse in qualsiasi locale del mondo, e soprattutto i nervi a fior di pelle, l’unico ingrediente che non manca mai, in nessuna cucina del mondo.
Ed è anche una serie piena di poesia, perché sullo sfondo c’è lei, una Chicago stanca, con le borse sotto gli occhi ancora incredibilmente brillanti. Ed ecco quindi la città della working class che si sveglia presto al mattino per prendere autobus e metropolitane, la città lontana dai grattacieli, quella dei bassifondi, dove le persone sono più autentiche, o forse hanno semplicemente meno sovrastrutture e possibilità di mentire, agli altri e a sé stessi. Una vita più semplice, più brutale ma anche più schietta, come da tradizione americana (chiaramente tutta letteraria e mai rispondente alla realtà. Citofonare per esempio a Michael Chabon, Telegraph Road, per ulteriori informazioni).
È a Chicago che Carmy, sua sorella Sugar, il cugino Richard scelgono di andare avanti. Continuano ad andare avanti, senza mai chiedersi cosa potrebbero fare per togliersi quel peso dalle spalle, senza mai fermarsi per farsi la domanda delle domande. Come stai? E io, come sto? Con un padre e una madre clamorosamente assenti nell’arco narrativo (visto che di saga familiare si tratta) Carmy si accanisce maniacalmente sulla sua cucina e sulle macchie del pavimento, Sugar ha troppa paura di guardarsi dentro, Richard scivola pericolosamente, anche lui, verso una dipendenza da psicofarmaci. Gli altri del ristorante si muovono sullo sfondo ma ognuno con un carattere e una storia ben delineati (in The Bear non esiste un solo personaggio non all’altezza o non convincente dal punto di vista attoriale o narrativo), diventando piano piano una seconda famiglia. Perché le cose, come nella vita reale, inizieranno ad andare meglio quando il ghiaccio della non comunicazione comincerà a sciogliersi. Quando tutti sceglieranno di fare un passo in direzione dell’altro. Quando ognuno capirà, ognuno con i propri tempi, che la vita a volte ci pone di fronte a situazioni su cui non abbiamo voce in capitolo, l’unica cosa che possiamo cambiare è la nostra risposta a quella situazione. E la nostra risposta può fare una differenza enorme. In stile Sliding Doors.
Certo, le cose non accadono mai da sole. Chi ci crede la chiama Grazia, per gli altri è il destino o, semplicemente, il rapporto causa-effetto, magari la proverbiale botta di culo. Tutto questo si presenta al The Original Beef of Chicagoland e ha le sembianze della bravissima Ayo Edebiri, un corpo estraneo che dietro le mentite spoglie di una stagista si insinua nella folle routine del ristorante con nuove idee, nuova giovinezza e un nuovo entusiasmo che finisce per smuovere tutti dalle posizioni in cui si erano arroccati, per stanchezza o abitudine.
E come un’ombra sul muro, onnipresente nella sua assenza, c’è ovviamente Mike, che vediamo in un paio di flashback dal sapore crepuscolare e che ha il volto da reduce e l’incredibile faccia da schiaffi di Jon Bernthal. La prima stagione ruota tutta attorno a lui, o meglio intorno alla sua mancanza mal digerita, al suo gesto incomprensibile, compiuto senza lasciare nemmeno due righe. Anche se, e ne abbiamo conferma solo verso la fine, una lettera d’addio c’è. Ancora una volta nascosta in quel corpo-ristorante, in quel cuore-ristorante, occultata, non si capisce se per caso o volontà, dietro al piede di un mobile, un posto dove nessuno guarda mai. Ed è un biglietto che cambia la vita e che ancora una volta ricorda a tutti come per la famiglia Berzatto il cibo fosse l’unico alfabeto possibile, l’unica forma di comunicazione.
Perché forse è proprio la comunicazione il fulcro su cui ruota tutta questa prima stagione. Si parla (meglio) attraverso il cibo, ma si tenta di parlare (annaspando, balbettando, con le mani che tremano dopo una crisi di nervi, magari di fronte a una platea di sconosciuti degli Al-Anon o perfino in sogno) anche con le parole, che sono però un mezzo meno adatto per capirsi. Quando parliamo attraverso il cibo diventiamo d’un tratto comunicativi. Gli sguardi si fanno espressivi, i gesti precisi, il senso, come per magia, emerge e si staglia nitido. Entra dalla nostra bocca, passa per le papille gustative e si posiziona esattamente dove deve stare, fra cervello e cuore. Quando scegliamo di utilizzare le parole invece i messaggi si fanno confusi, vengono inglobati dalle nostre ansie, dalla nostra incapacità di aprirci, dalla nostra inabilità non tanto a dare le risposte giuste ma a fare le domande giuste.
Al The Original Beef of Chicagoland prima del servizio si cucina per il pranzo o la cena del personale, come in quasi tutti i ristoranti del mondo (quel pasto che si chiama, significativamente, solo family). A turno qualcuno cucina, poi ci si raccoglie intorno a un tavolo apparecchiato. Si assaggia tutti la stessa ricetta, ci si scambia un cenno di intesa, un sorriso. Accidenti se è buono. La famiglia è già lì, perfetta, raccontata in un’immagine, senza bisogno di parole. Ed è così anche nella vita di tutti i giorni. Quando cuciniamo, quotidianamente, scegliamo di raccontare qualcosa. E di fare dono di noi stessi, del nostro tempo, della nostra esperienza. Di dare o regalare qualcosa a qualcuno, di onorare qualcosa o qualcuno. Ma il vero miracolo inizia solo quando veniamo riconosciuti in quel gesto, quando ci riconosciamo e veniamo riconosciuti nell’atto di donare. Quando qualcuno lo mangia, quel piatto, apprezzandolo o anche rifiutandolo. Perché per riconoscere e riconoscersi serve sempre un alfabeto, una lingua che sia al tempo stesso nostra e condivisa.
E questo ci porta al titolo della serie e al finale della prima stagione. L’orso, fin dall’antichità, ha una nomea da animale leggendario. A parte la scimmia è il più simile a noi (perché si alza sulle zampe posteriori e con le zampe anteriori raccoglie il cibo e se lo porta alla bocca, per esempio) ma con la sua forza, la sua resistenza e la sua velocità ricorda più un superuomo, l’ha fatto notare qui il medievista Paolo Galloni. Forse anche per questo è da sempre considerato un animale enigmatico, capace di tenere sveglio un uomo la notte o di far addormentare un bambino se lo trasformi in un soffice teddy bear. Ha sempre suscitato paura reverenziale da un lato, dall’altro è stato venerato nei secoli dalle tribù pagane del mondo. Uccidere un orso, per le popolazioni cacciatrici, era probabilmente un qualcosa di analogo ad arpionare una balena. Voleva dire far crollare una parte d’universo, o meglio rubarne un pezzetto, e con esso assicurarsi una pelle calda per superare i rigori dell’inverno di tutta una vita, grasso utile per gli scopi più disparati (vi fu perfino chi gli attribuì poteri divinatori), quintali di carne da far seccare e da mettere sotto sale per superare una carestia. Sacrificare una vita per salvarne molte altre, insomma.
Ed è così che la scena di chiusura della prima stagione di The Bear assume, inaspettatamente, una tinta sacrale. In quella cucina disastrata, sporca, il pomodoro delle lattine che schizza ovunque e che sporca le magliette e le mani della tribù, la nuova famiglia del The Original Beef of Chicagoland, ricorda una scena di caccia. Precisamente quando si squarta la preda, con gratitudine, per onorarla e mettere a frutto il suo sacrificio. Perché nulla, di quella vita spenta, vada sprecato.