Spoiler Alert | questo articolo contiene spoiler sulla prima (e unica) stagione di Roadies.
It’s my opinion that in life you need
two things to survive: oxygen and family.
Everything else is dessert.
Alcune serie tv sono dichiarazioni d’amore. E, per questo motivo, qualcuno le guarderà con gli occhi lucidi e qualcun altro le ignorerà senza rimpianti. Roadies è stata ignorata, trascurata e cancellata al termine della prima stagione, nel disappunto dei pochi che avevano osato innamorarsene.
È stata una piccola serie, nonostante i grandi nomi davanti e dietro le quinte. La storia di un gruppo di persone al seguito di una rock band di cui, per una scelta sorniona, non sentiremo mai nemmeno una canzone: roadies, appunto, che passano i giorni e le notti a caricare e scaricare attrezzature, accordare strumenti, posizionare luci, riposare in grossi camion dormitori che solcano le strade americane, preparandosi al prossimo concerto della Staton-House Band.
Se l’idea di uno show che punta il riflettore sulle persone e sulle loro vite, indissolubilmente legate alla passione per il lavoro che svolgono, vi fa pensare a qualsiasi opera di Sorkin non state sbagliando di molto. Se il nome del creatore, Cameron Crowe, vi ricorda Almost Famous e lo straordinario documentario Pearl Jam Twenty, ancora una volta: siete sulla strada giusta.
Tutto ha inizio con Kelly Ann, una giovane americana spettinata che a fare la roadie c’è finita quasi per sbaglio mentre cercava di diventare una regista. Kelly Ann sono io. Siete voi. Bastano pochi secondi per capirlo e a quel punto l’incantesimo è già stato lanciato. Tra gli altri membri della crew ci sono Bill, tour manager innamorato della collega Shelli; Wes, esperto nell’arte del caffè, espulso dal tour dei Pearl Jam e il magnifico Phil, un personaggio così surreale da insinuare il dubbio che possa essere realmente esistito: l’uomo che andò in tour con i Lynyrd Skynyrd, una rozza versione della letteraria Shahrazād, in grado di raccontare 1001 aneddoti sulle leggende del rock e di seguire Taylor Swift nello spazio.
A rovinare l’equilibrio del gruppo arriva Reg, consulente finanziario che odiamo (sapendo che arriveremo ad amarlo) e si intromette la misteriosa Janine, musa del bassista Christopher e soggetto della canzone che ha portato gli Staton-House al successo. Ogni episodio di Roadies è il diario di una giornata, il dietro le quinte di un’esibizione scandito da riti e superstizioni, in cui non mancano le contraddizioni, i compromessi, i fan ossessionati e i critici, i fotografi presuntuosi e la musica, certo, più di ogni altra cosa.
Cameron Crowe parla di musica e delle persone che fanno musica, perché è quello che desidera da sempre: da quando a quindici anni ha iniziato a scrivere recensioni per Creem e su Playboy. Pochi mesi dopo anche la rivista Rolling Stone si è accorta di lui e il resto è una storia che comprende film di culto come Say Anything (Non per soldi… ma per amore) e Singles. Così, nella puntata finale che (nonostante sia stata girata prima della cancellazione ufficiale) ha tutto il sapore di un addio, siamo sorpresi, ma non poi tanto, nel vedere che sul palco – sotto l’immagine di un gigantesco cappello da cowboy – a dedicare una canzone a Phil c’è proprio lui: Eddie Vedder, con la sua voce e una chitarra, perché di cos’altro abbiamo bisogno?
Roadies non ha la dialettica di The Newsroom, non ha la presunzione di Vinyl: ha l’onestà di un cantastorie che non ambisce a cambiare il mondo, la spensieratezza di una gita tra amici, la profondità di una chiacchierata su una panchina in una serata estiva con un bicchiere in mano. Funziona, se ci fermiamo un istante a ricordare che noi amanti seriali, giornalisti, aspiranti critici o semplici appassionati, ossessionati dai nomi degli showrunner, dai ratings e altre parole che non ci siamo nemmeno preoccupati di tradurre, alla fin fine, vogliamo una cosa soltanto: sentire il cuore che batte un po’ più forte. A volte è sufficiente una parola e, se si sanno fare giochi di prestigio come sa fare Crowe, la parola può anche essere “pistacchio”.
Il cerchio si chiude come nella miglior tradizione, con una fine che riporta all’inizio del viaggio. Un viaggio che sembra essere durato troppo poco, perché avremmo continuato a macinare chilometri, perché già mentre eravamo sulla strada una parte di noi sapeva che ce ne saremmo ricordati per sempre.