Fits one head: Sorkin, Hamilton e il mondo come lo vorrei

The Newsroom

Except for the things we did wrong, we did everything right.

Ho parlato di serie tv che mi hanno conquistato, divertito, fatto spendere centinaia di euro in portachiavi e magliette. Ho raccontato quelle comedy mediocri che custodiscono una scintilla di meraviglia, ho cercato la poesia nei teen drama. La sola serie di cui non ho mai scritto nemmeno una riga è quella che amo più di ogni altra. Oggi, dopo aver visto per la quinta (sesta? ventesima?) volta l’ultimo episodio della seconda stagione, ho deciso di farlo. Non so bene perché, né come andrà, ma stiamo per scoprirlo.

Quando ero troppo piccola per rendermene conto, ho scelto il mio sceneggiatore preferito. Non sapevo nemmeno che lavoro fosse, quello dello sceneggiatore, probabilmente pensavo che gli attori improvvisassero ogni battuta e quindi potrebbe non essere un caso che la frase più celebre del film che sto per nominarvi sia davvero stata improvvisata (da quell’interprete inquietante e geniale che è Jack Nicholson). «You can’t handle the truth!» è una delle citazioni più famose della storia del cinema e non l’ha scritta Aaron Sorkin, anche se quasi tutti gliene attribuiscono il merito. Il film in questione è A Few Good Men (Codice d’Onore), trasposizione del 1992 di un’opera teatrale del 1989 dello stesso Sorkin. Nel 1989 avevo sei anni.

«Chi è Aaron Sorkin?» potreste chiedermi, ma solo se non siamo mai stati a cena insieme, perché in caso contrario vi ho sicuramente parlato a lungo di lui. Questo è più o meno tutto quello che ho in comune con un altro genio assoluto: quel Lin-Manuel Miranda che ha creato Hamilton tutto da solo e che (ho scoperto di recente, ma senza sorpresa alcuna) è un fan sfegatato del nostro Sorkin. Al loro primo incontro Lin-Manuel Miranda ha confessato di aver nascosto la maglietta di The West Wing sotto una felpa, in un misto di adorazione e leggera vergogna con cui non fatico a empatizzare.

The Social Network, Steve Jobs, Molly’s Game, The Trial of The Chicago 7sicuramente avete visto almeno uno dei suoi film e, magari senza rendervene conto, avete amato qualche “sorkinismo”: i velocissimi botta e risposta (rapid-fire o ping-pong dialogues), spesso tra personaggi indaffarati che camminano velocemente per i corridoi di un posto di lavoro molto figo (walk and talk); i riferimenti politici, storici, artistici, di costume (alcuni estremamente popolari, altri decisamente no); i lunghi monologhi alla fine dei quali è arduo riuscire a trattenere un applauso; il tema dell’amore perso e ritrovato tra chi vive della stessa passione e quello delle colpe dei padri. Probabilmente conoscete anche The West Wing, il capolavoro seriale che ha aperto le porte dell’ala ovest della Casa Bianca e ci ha presentato uno staff che il mondo reale può solo sognare. Non tutti sanno che la serie è basata sul film The American President e che Sorkin se ne andò al termine della quarta stagione per un mix di problemi personali e disaccordi con la produzione: io lo so, perché ne sono ossessionata e perché ho seriamente pensato di dedicargli un libro monografico. Progetto accantonato per motivi prevalentemente geografici e per l’impossibilità di tradurre il ritmo e la complessità dei dialoghi, la musicalità delle parole e il delicatissimo equilibrio tra solennità e sarcasmo (in parole povere: perdonatemi ancora una volta, ma doppiato non si può guardare).

Mentirei se vi dicessi che Aaron Sorkin ha sempre centrato il bersaglio. Se abbiamo cenato insieme sapete anche quanto io detesti Tom Hanks e uno dei motivi è aver macellato lo script del deludente Charlie Wilson’s War. Being the Ricardos è tutto fuorché indimenticabile e la prima e unica stagione di Studio 60 on the Sunset Strip pare sia piaciuta solo a me e ad Armando Minuz. Uno show simile, ambientato al 30 di Rockefeller Plaza, è nato nello stesso anno e ha raccolto tutto il successo disponibile: se decideste di (ri)guardare l’episodio 5×18 di 30 Rock assistereste a un momento televisivo fantastico in cui Liz Lemon (Tina Fey) incontra Sorkin nel ruolo di sé stesso e lo prende per i fondelli.

Tornando a noi, The West Wing è superlativa, divertente e commovente, imprescindibile. Ha apertamente ispirato quel già citato capolavoro che è Hamilton e una miriade di altre opere che – invece – non lo ammetteranno mai (Succession, per dirne una). Tuttavia The West Wing non è la mia preferita. La serie che ha preso in ostaggio il mio cuore è uscita sulla HBO nel 2012. C’è chi la adora e chi la detesta, c’è chi non l’ha mai sentita nominare, c’è chi non è riuscito a finirla e chi ancora mi ringrazia per avergliela fatta conoscere. Racconta la storia di Will MacAvoy, voce e volto di News Night, notiziario dell’immaginaria e utopica rete televisiva ACN; di MacKenzie McHale, cazzutissima, fragile e idealistica produttrice esecutiva; di Charlie Skinner, il capo (padre?) che tutti vorremmo avere. Con loro c’è una redazione formata da creature straordinariamente colte, esageratamente brillanti, moralmente ineccepibili: i colleghi (amici?) che vorremmo, nel mondo che vorremmo. Un mondo che fuori ha le stesse colpe, gli stessi pericoli, la stessa ipocrisia del nostro, ma dentro – inside The Newsroom – ha un posto per noi. Un posto in cui possiamo credere di correggere la rotta del pianeta difendendo i più deboli, appiattendo le differenze, eliminando i pregiudizi, combattendo contro le ingiustizie e i mulini a vento. Non per nulla è di Don Chisciotte che si parla già dalle prime battute del primo episodio, della speranza e dell’illusione.

The Greater Fool, il grande folle: così viene chiamato Will, nel bel mezzo della sua mission to civilize. Non la prende per niente bene, finché la sua sorellina putativa e financial reporter Sloan Sabbith gli fa notare che si tratta in realtà di un termine economico. Il greater fool è chi corre rischi e spiana la strada. «È qualcuno con la perfetta miscela di ego e autoinganno che pensa di poter avere successo dove gli altri hanno fallito» dice Sloan e poi aggiunge: «Tutto il nostro Paese è stato creato da greater fools». Un’America che deve lavorare molto per tornare a essere the land of the free e che ha davvero bisogno di persone come Will e MacKenzie.

Così come il mondo intero, così come noi abbiamo bisogno di Aaron Sorkin e di Lin-Manuel Miranda, di artisti che continuino a ricordarci il potere del pensiero, il valore dell’intelligenza, in questa terra virtuale che elogia la semplicità e premia la superficialità; esseri umani che abbiano capito anche un’altra fondamentale verità, che va da William Shakespeare fino a Jon Stewart, passando per tutti i continenti, i movimenti, i secoli: l’intelligenza arriva meno lontano se non è accompagnata dal senso dell’umorismo.

Le donne e gli uomini che animano la newsroom hanno una grande ironia, un’invidiabile dialettica, una competenza assoluta e (anche se a volte ci mettono sette secondi) sanno riconoscere il bene dal male. Fanno giornalismo fregandosene degli ascolti, scavando per arrivare a ciò che è vero. Pagano di tasca propria e non lo dicono a nessuno, perdonano e ricostruiscono su qualsiasi maceria. Non sono bravi a gestire le proprie emozioni, si rompono le mani dando pugni allo schermo di un computer, commettono errori e spesso stanno con la persona sbagliata, ma abitano dalla parte dei giusti. Non tutti, certo, perché purtroppo esistono anche i Jerry Dantana, gli individui senza virtù e senza scrupoli, quelli per cui dobbiamo specificare che la cuffia da bagno fits one head. Ma questo non è il posto per loro: è il posto per me, sicuramente, e forse è anche il posto per voi.

Se volete, allora, ci possiamo trovare lì. In un momento qualsiasi prima dell’ultimo episodio che – come da tradizione – porta il titolo che era stato dato al finale della prima stagione di Sports Night, The West Wing e alla puntata conclusiva di Studio 60: What kind of day has it been.

Che razza di giorno è stato? Un giorno in cui abbiamo riso, abbiamo capito qualcosa di molto importante, ci siamo commossi e ci siamo sentiti un po’ meno soli. Insomma, un giorno che non si dimentica.