Primo Corinzio: Oxford Apartments, APT 213, Milwaukee

Dahmer - Monster: The Jeffrey Dahmer Story

Trigger Warning | omicidio, cannibalismo, razzismo, violenza, violenza sessuale.

Se si ama il proprio dolore, esso diviene voluttà.
Dunque la distruzione è una delle leggi della Natura come la creazione.
Marchese De Sade, La filosofia nel boudoir

Se vi capitasse di fare una passeggiata sulla 25th Street di Milwaukee in Wisconsin vedreste, a un certo punto, un prato verde recintato. Nessuna targa, nessun richiamo a qualsiasi memoria. Solo un prato verde molto curato. Quel lotto di terreno ospitava – fino al 1992, anno della demolizione – gli Oxford Apartments: nome che probabilmente non vi dirà nulla, ma se ci concentriamo sulla stanza numero 213 e sul suo ultimo affittuario, una tragica narrazione ha inizio.

La ricostruzione 1:1 dell’appartamento 213 sulla venticinquesima di Milwaukee è uno dei luoghi in cui si svolge Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story, la nuova produzione Netflix di Ryan Murphy e Ian Brennan che, con la loro abile e mutaforma follia narrativa, fanno un resoconto molto preciso e filologico di come la storia di Jeffrey Dahmer abbia influito sul mondo e, viceversa, di come la società abbia contestualmente plasmato la violenza che poco alla volta è arrivata nei più oscuri meandri del pensiero di un uomo, figlio di un’America rurale emotivamente insensibile e sistematicamente razzista e omofoba.

Jeffrey Dahmer è stato chiamato in molti modi (fra i più noti ci sono, ovviamente, il cannibale di Milwaukee o il mostro, il diavolo di Milwaukee), ma principalmente è stato un serial killer nella sua accezione più didascalica: «Colui che uccide più persone in momenti successivi per il ripetersi di una particolare motivazione ossia la distruttiva e sadica associazione di sesso e morte» (Il fascino del male, Raffaello Cortina Editore). La parola “mostro”, posizionata quasi come fosse un tag anche nel titolo della serie tv, è di fatto una definizione “di pancia” abbastanza imprecisa che nasce dalla narrazione dei media e che gli addetti ai lavori (criminologi o periti psichiatri) non utilizzano, ma che attira il pubblico e offre uno spunto di riflessione molto interessante. Monstrum in latino significa «prodigio», indica perciò una manifestazione soprannaturale legata a caratteristiche e qualità non comuni o commistioni di nature diverse, anomalie rispetto a una prestabilita normalità. Figure rare ed eccezionali quindi, ma con peculiarità e doti straordinarie all’interno di “tutte” le infinite variabili dell’essere psichico: per esempio la ferocia, l’oscenità, la violenza che, di fatto, non sono poi così avulse dalla natura umana, la quale è per definizione ambivalente, in un conflittuale e perenne equilibrio tra bene e male, tra odio e amore.

Possiamo percepire chiaramente che a Ryan Murphy e Ian Brennan non interessa “mostrare per giudicare” Jeffrey Dahmer – che, per inciso, ha avuto la sua condanna ufficiale il 13 luglio 1992 – quanto isolare e ragionare sulle varie connivenze psicologiche e sociali di questa storia umana molto complicata e molto tragica: che cosa ha creato “il mostro”? Come è riuscito il “malessere” nella personalità di Jeffrey Dahmer a trasformarsi nella terrificante realtà che ormai tutti conosciamo? Cosa è successo a quel mondo quando quella realtà, dalla sua oscurità e dal suo silenzio, si è rivelata con tutto il suo fragore?

Il primo elemento in risalto è un contesto sociale storico-geografico molto preciso: lo stato contadino e brassicolo del Wisconsin degli anni Settanta-Novanta che diventa la realtà in cui omofobia, razzismo sistemico, dipendenze dalle droghe e alcool, violenza, povertà ed emarginazione saranno il vero organo generatore del declino e della perdita di controllo di Jeffrey Dahmer.

La serie tv ripercorre principalmente il cammino nell’abisso della sua mente: una spirale digradante di lotta – in completa solitudine – contro i suoi pensieri più profondi e segreti, le pulsioni più perturbanti, la paura costante e insormontabile di essere abbandonato ancora e ancora. E, nella sua realtà di invisibile con pochissime abilità di relazione, al primo “abbandono” percepito – la sua prima vittima Steven Hicks – si rompe quel fragilissimo equilibrio interiore e si traccia una via che ormai tutti conosciamo e da cui Jeffrey Dahmer non riuscirà più ad allontanarsi.

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Proprio da questa spaccatura Ryan Murphy e Ian Brennan fanno uscire tutti gli altri personaggi, sventurati anch’essi, e le loro altrettanto complesse psicologie: il padre, la madre, la vicina di casa Glenda Cleveland, le vittime e le famiglie delle vittime, la polizia. Ognuno ha il suo posto, ognuno ha la sua parte, ognuno può raccontare la sua storia.

Il padre e la madre. Apparentemente una classica famiglia americana della middle class che, però, non riuscì mai a leggere i segni, le necessità, la sofferenza del loro primo figlio. Ben presto tutto crolla: la madre Joyce Annette Flynt, che da tempo soffriva di depressione, se ne va di casa; il padre Lionel Dahmer, troppo occupato a sminuire ogni segnale e ogni mancanza per proteggere l’immaginario della “famiglia perfetta”, è spesso assente. In questo ambiente familiare distante, emarginante e senza vere prospettive di educazione emotiva, Jeffrey Dahmer inizia a bere dall’adolescenza, capisce in totale solitudine di essere gay in un mondo molto omofobo, inizia ad avere forti disturbi di evidente parafilia e a sviluppare macabri interessi verso i quali nessuno lo aiuterà a far emergere dubbi morali e per i quali nessuno lo fermerà.

Le vittime e le loro famiglie. Jeffrey Dahmer confessò diciassette omicidi commessi tra il 1978 e il 1991; tutte persone di sesso maschile, quasi tutte appartenenti alla comunità LGBT dell’epoca, quasi tutti afroamericani, asiatici o ispanici, spesso adolescenti. Categorie ai margini: razzializzate, accantonate dalla società, dimenticate o dimenticabili. Un terreno sociale molto favorevole per la ricerca morbosa di “connessioni” o – in altre parole – d’amore di Jeffrey Dahmer che, nonostante appartenesse a una categoria discriminata, era pur sempre un bianco in un mondo particolarmente razzista. Fissiamo questo importante punto di vista che emerge dalla narrazione di Ryan Murphy e Ian Brennan e iniziamo ad andare oltre il racconto di un serial killer.

La polizia. Jeffrey Dahmer non era incensurato quando venne catturato. Era già stato oggetto di segnalazioni e denunce per alcolismo e violenza sessuale. Questo avrebbe dovuto far risuonare campanelli d’allarme o perlomeno attirare l’attenzione della polizia. Magari quando arrivavano telefonate al dipartimento di polizia di Milwaukee in cui i vicini di casa di Jeffrey Dahmer lamentavano rumori sinistri, urla e odori nauseabondi provenienti dal suo appartamento. Magari quando, il 27 maggio del 1991, Konerak Sinthasomphone scappava dall’appartamento 213. Magari se i due agenti della polizia Joseph Gabrish e John Balcerzak, arrivati sul posto dopo l’ennesima telefonata di due vicine di casa Nichole Childress e Sandra Smith (nella serie tv troviamo Glenda Cleveland), anziché rilasciare sotto la custodia di Dahmer stesso il ragazzo – minorenne, palesemente drogato e ferito alla testa probabilmente con un trapano – lo avessero portato in centrale, avessero indagato, magari lo avrebbero salvato. Ecco un altro tema importante: Jeffrey Dahmer era un invisibile talmente inserito nel contesto sociale dell’epoca che è stato, di fatto, lasciato libero di agire per quasi un ventennio ed è difficile non immaginare connivenze con le forze dell’ordine che, volenti o nolenti, hanno chiuso occhi e orecchie solamente perché le voci che arrivavano non appartenevano a persone di razza bianca.

Glenda Cleveland. Il personaggio è stato costruito unendo le esperienze della vera Glenda Cleveland, che originariamente viveva in un edificio adiacente agli Oxford Apartments, e quelle della reale vicina di appartamento di Jeffrey Dahmer, Pamela Bass. La Glenda Cleveland della serie tv rende voce a ogni donna, a ogni persona non ascoltata, a ogni persona discriminata anche nell’atto di denunciare un possibile omicidio. Ci lascia un pensiero amaro e terrificante: possiamo davvero sentirci difesi e sicuri se il nostro vicino di casa potrebbe essere un serial killer e le forze dell’ordine non agiscono perché paura e richieste d’aiuto non sono uguali per tutti?

Ryan Murphy e Ian Brennan riescono a tenere insieme tutta questa complessità psicologica restituendola visivamente ed emotivamente: a partire dalla fotografia di Jason McCormick e John T. Connor, oscura e claustrofobica, fino alla scelta di un cast nel quale emerge la recitazione solipsistica di Evan Peters nei panni di Jeffrey Dahmer (la sua terrificante e realistica postura mentre cammina con le braccia cadenti lungo il corpo e il busto proteso in avanti fa rabbrividire), così come l’interpretazione dolentissima del padre, Richard Jenkins, nel suo viaggio dentro l’inferno della consapevolezza.

La serie tv procede per flashback, tra un tempo presente un po’ narcolettico e l’arco temporale degli eventi, riproponendo alcune scene, ma aggiungendo o togliendo piccoli elementi per permettere allo spettatore di non uscire mai dal circuito della memoria e per farlo entrare nella storia il più profondamente possibile (un episodio ad alto coinvolgimento sensoriale su tutti: il sesto, Silenced).

Senza mai eccedere in scene gore o splatter, Ryan Murphy e Ian Brennan riescono quasi sempre – perdoniamo alcune lentezze e qualche teatralità esasperata – a trattenere lo spettatore al centro della tragedia e a trasferire, anche grazie alla manicale e pedissequa ricostruzione scenografica, quel senso di fatalità ineluttabile che pervade tutta la serie tv. Fino ad arrivare al finale: un esodo, un’uscita, una liberazione, quasi una catarsi. Per tutti.

Ad aggiungere fuoco all’apocalisse: la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis. Suoni di terra, di melma e fango, di luci al neon che friggono e stanno per spegnersi. Un violino cupissimo – lento e oscuro – di Ellis, un pianoforte che segue questa liturgica chiamata con le voci lontane di un coro senza vita in un vortice di danze verso l’orrore.

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E ora arriva la parte scomoda dell’intrattenimento che normalmente scaturisce dal prodotto denominato “serie tv” e dalla narrazione che ne consegue.

Facciamo una premessa: ognuno di noi, come dice Jonathan Gottschall nel libro Il lato oscuro delle storie, vive in un suo particolare “storiverso” ossia lo spazio mentale ed emotivo che si costruisce fin dall’infanzia tramite tutte le storie che “consumiamo” attraverso qualsiasi media utilizzato. Immaginiamo, quindi, che in questo momento storico dove i social hanno abbattuto qualsiasi barriera connettiva, i diversi “storiversi” con le loro convinzioni e le loro relazioni si incontrino in uno spazio digitale mentre commentano, per esempio, una serie tv. Il coesistere di “storiversi” con background, principi e conoscenze differenti, non sempre porta al dibattito costruttivo ma spesso polarizza e destabilizza soprattutto su argomenti che, a un certo punto, diventano “trend” nel mondo dei mass media.

Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story esce il 21 settembre 2022 su Netflix e diventa il terzo titolo a superare il miliardo di ore di visualizzazione nei primi due mesi, ma già dopo pochi giorni dalla sua uscita inizia la pioggia di critiche da parte di tutti: utenti, parenti delle vittime, il padre di Jeffrey Dahmer, chiunque. «Ancora una volta sfruttato il trauma e il dolore delle vittime.», «Serie tv razzista e omofoba.», «Serie tv creata senza che Netflix chiedesse i consensi da parte delle famiglie.», «Il “mostro” è troppo umanizzato.», «Era necessario parlarne ancora?», «E il rispetto? La spettacolarizzazione del serial killer?». Tutto legittimo, ovviamente. La serie tv non cerca mai, davvero, né una redenzione, né una giustificazione, né una spiegazione di quello che Jeffrey Dahmer ha commesso e – ribadisco – per cui è stato giudicato e incarcerato. Ma facciamo un passo indietro.

Le vicende di Jeffrey Dahmer sono di dominio pubblico da circa trent’anni: molti filmati del processo si trovano ancora su YouTube, l’intero dossier dell’FBI è stato reso pubblico grazie al Freedom of Information Act del 1966, dalla sua storia sono state tratte almeno duecento produzioni tra film e documentari (fra cui Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer, uscito sempre su Netflix, furbescamente poco dopo la serie). Il padre di Dahmer, dopo aver pubblicato il suo libro – A Father’s Story – mentre suo figlio era ancora in vita, si era fatto una mezza idea di trarne un film. Dahmer stesso, oltre a ricevere centinaia di offerte per lungometraggi e lettere di “ammiratori”, nel 1994 venne intervistato da Stone Philips della NBC direttamente nel carcere dove si trovava e dove qualche mese dopo sarebbe stato ucciso da un altro detenuto.

La serie tv riprende un discorso che va molto oltre le critiche di spettacolarizzazione e sfruttamento che, come possiamo vedere, erano già in atto da molto tempo e alle quali oggi non vediamo aggiungersi nulla di nuovo. Questa serie ci pone davanti a un ragionamento: perché è ancora importante questa storia? Perché è ancora importante mostrare come questa figura tragica e terrificante abbia potuto muoversi indisturbata in un sottomondo di invisibili.

Non meno importante, questa serie tv – ma anche il mondo a incastro dello streaming, guidato dal meccanismo degli algoritmi – ci riporta una sensazione che è vecchia come il mondo: il male c’è fin dalle origini, è un gioco di specchi. A volte lo compiamo e a volte lo guardiamo, seduti nella nostra poltrona. A volte sono i media a riproporci all’infinito un perturbante, forse proprio per tenerlo sempre sotto controllo.

Jeffrey Dahmer è stato arrestato il 22 luglio 1991 in seguito alla fuga e alla richiesta di aiuto, questa volta ascoltata, di Tracy Edwards: la sua ultima vittima. È stato condannato all’ergastolo con quindici capi d’imputazione per omicidio, commessi quasi tutti nel suo appartamento nell’arco del precedente ventennio, ma se passate oggi da Milwaukee non troverete più nulla, a parte qualche macabro tour turistico: tutto cancellato dalla geometria e dal mondo urbano, nessun ricordo delle vittime, nessuna storia parallela.

Jeffrey Dahmer è stato ucciso nella Columbia Correctional Institution di Portage nel 1994 da Christopher Scarver, un detenuto schizofrenico, con un manubrio per i pesi trafugato in palestra. La stessa arma con cui Dahmer uccise la sua prima vittima, mai ritrovata. Tutti probabilmente pensarono: «Meglio, così non ci penseremo mai più». Fine della storia.

Ma buttare i cocci e spazzare la polvere sotto il tappeto non è una soluzione. Per questo – forse – serve parlarne ancora, anche solo per permetterci di osservare che “cancellare” o “dimenticare” è come dire: «Dai, puoi farlo ancora. Tanto nessuno se ne accorgerà».

DA ASCOLTARE
Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story (Soundtrack from the Netflix Series)

PER APPROFONDIRE
FBI Records: The Vault
Derf Backderf, My Friend Dahmer, 2017, Gribaudo
Lionel Dahmer, A Father’s Story, 2021, Echo Point Books & Media LLC
Ponti Gianluigi, Fornari Ugo, Il fascino del male, 1999, Raffaello Cortina Editore
Robert L. Simon, I buoni lo sognano i cattivi lo fanno, 1997, Raffaello Cortina Editore
Beatrice Cristalli, Parla bene pensa bene. Piccolo dizionario delle identità, 2022, Bompiani
Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie, 2021, Bollati Boringhieri