L’Encanto di The Last of Us

The Last of Us

Paying attention to things, it’s how we show love.

Recensire serie tv è un rischio. A meno che non siano finite da anni e, anche in questo caso, ormai non si può più essere certi che qualcuno non decida di ripescarle dal ripostiglio, soffiare via la polvere e usarle come ingranaggio alla base di un nuovo marchingegno televisivo. C’è chi attacca un prequel davanti, chi aggancia un sequel dietro e chi ridipinge il tutto per ottenere un reboot che (il più delle volte) fa dire al pubblico: «Era meglio prima».

Una volta su dieci (cento? mille?), però, vediamo un pilot e vorremmo già scrivere su tutti i muri che si tratta di un capolavoro. Ben consapevoli che la torre della meraviglia potrebbe crollare da un momento all’altro. Ma, in fondo, questo non vale forse per ogni cosa?

Il pilot di The Last of Us è un capolavoro. Anche la seconda puntata è un capolavoro. La terza è un capolavoro persino più grande. Allora, a questo punto, una persona che scrive di tv sarebbe molto tentata di definire tutta la serie… avete capito. Non si può, perché non siamo nemmeno a metà della prima stagione, è già stato concesso il rinnovo per una seconda e da qui a diventare una spremuta di idee (come le ultime stagioni di The Walking Dead, per esempio) il passo è breve.

Allora che cosa possiamo fare? Possiamo dire che fino a qui The Last of Us ha reso omaggio fedelmente e meravigliosamente al videogioco da cui è tratta, ma che forse ci siamo innamorati davvero solo quando ha deciso di cambiare qualche tassello al puzzle.

Facciamo un passo indietro: oggi i videogiochi banalmente subiscono la stessa sorte che è toccata al cinema prima e al fumetto poi, ma anche a ogni “nuovo” genere musicale. Per invertire la rotta c’è sempre bisogno di qualcuno che fermi il mondo (non tutto il mondo, certo, ma una fetta sufficiente). C’è stato bisogno di Elvis, di Fellini, di Lichtenstein. C’è stato bisogno di Vince Gilligan. Ora c’è bisogno di Neil Druckmann.

Non è la prima volta che un videogioco sfida il suo tempo e aspira a diventare “il” videogioco. Ho pianto per giorni dopo Life is Strange, il Minuz Vagante ha parlato per settimane di Death Stranding e Red Dead Redemption, ma The Last of Us ha qualcosa che non tutte le opere hanno e che, volendo semplificare all’estremo, fa la differenza: la capacità di essere universale e, al tempo stesso, non rinunciare a un milligrammo della propria identità.

Perché (ed è solo la mia opinione, ma è molto salda e da molto tempo) andare incontro al pubblico costituisce l’errore più grande che si possa compiere. Qui in Italia lo sappiamo (o dovremmo averlo ormai capito) bene. E non mi riferisco (solo) alla programmazione di Canale 5. E non ripescherò il mio animale guida Aaron Sorkin e le terribili traduzioni che hanno appiattito e spogliato tanto The Newsroom quanto The West Wing. Più semplicemente, qualche sera fa ho visto Encanto (in italiano: croce e delizia dell’essere madre) e qualcosa non mi tornava. Le canzoni originali sono state scritte da Lin-Manuel Miranda, il genio assoluto dietro al musical Hamilton, e nella nostra lingua avevano rime come “saprai – ormai” o “un po’ – lo so”. Abbiamo ridotto uno dei più grandi parolieri contemporanei a una filastrocca da asilo e non ho sentito nessuno lamentarsi. Perché? Perché (sbagliando) non ci aspettiamo molto da un film della Disney o perché ormai ci siamo abituati a mangiare quello che abbiamo nel piatto senza nemmeno domandarci se serva un pizzico di sale?

Eppure, naturalmente e sorprendentemente, il cuore ci batte più forte quando vediamo, ascoltiamo, ammiriamo, leggiamo qualcosa che non ci viene incontro. Qualcosa che si fa inseguire, qualcosa che è stato creato per raggiungere l’eccellenza, magari persino per amore. E, naturalmente e sorprendentemente, non cercando di essere amato da tutti, quel qualcosa finirà con l’essere amato da tutti.

Ci sono persone così, ognuno di noi ne conosce almeno una. Mi piace pensare che non a caso la mia teoria si rifletta proprio in Joel, che facendo di tutto per allontanare Ellie… e qui mi fermo, perché come detto siamo solo all’inizio della storia anche se ci sembra di conoscerla da sempre. Abbiamo già amato e abbiamo perso, siamo caduti e ci siamo rialzati e abbiamo vissuto una vita intera insieme a Frank e Bill in un episodio tra i più toccanti della storia televisiva.

The Last of Us_2

Una lacrima in più è caduta grazie a Nick Offerman (per me, per molti, per sempre, l’indimenticabile Ron Swanson di Parks and Recreation) e all’anima che qui ha saputo mostrare. Craig Mazin l’ha detto molto meglio di me: «[…] funny people have soul. Funny people have a connection that I think is even stronger to what it means to be human».

È stato impossibile non ripensare a Robin Williams e, per un attimo, tornare a quando avevo undici anni (su per giù). La prima videocassetta l’ho comprata insieme a mia madre, sul lungomare romagnolo, un’estate di quasi trent’anni fa. Quel film l’ho imparato a memoria, a un certo punto diceva: «We read and write poetry because we are members of the human race. And the human race is filled with passion. And medicine, law, business, engineering, these are noble pursuits and necessary to sustain life. But poetry, beauty, romance, love, these are what we stay alive for».