La canzone di Geralt. Il mondo di Sapkowski tra pagina e schermo.

The Witcher

Geralt (al bardo Ranuncolo):
«Non è andata così come la racconti.
Dov’è il rispetto di cui parlavi poco fa?»
Il bardo si volta:
«Con il rispetto non si racconta una storia».
Liberamente tradotto dalla ballata di Geralt di Rivia

Anche se non posso dire di conoscerla a fondo, a parte i libri fondamentali letti negli anni, ho sempre subito il fascino di una certa letteratura “fantasy” (termine estremamente riduttivo ma in mancanza d’altro useremo questo, fermo restando che nel macrocosmo cui mi riferisco rientrano tanto Tolkien quanto I pilastri della terra, per capirci). Forse perché, al di là del fascino per la fabulazione, so quanta fatica ci vuole. Ormai una vita fa ho pubblicato un romanzo che racconta l’esistenza di tre uomini in un bosco. Tutto qui. Ci ho messo quattro anni, e innumerevoli weekend e notti insonni, per creare una casa persa nell’Appennino emiliano e due fratelli in lotta con un padre ferito.

Gli scrittori fantasy inventano, letteralmente, mondi. Contee, nazioni. Universi popolati da razze diverse, paesani, maghi e incantatrici, pitocchi e cortigiane, santi e sacerdoti. E poi, ovviamente, sullo sfondo fa la sua maestosa comparsa l’eterna lotta tra il bene e il male, che entra in scena nel modo più potente, cioè attraverso la diretta incarnazione del positivo e del negativo, zenit e nadir, un paladino e un mostro allacciati in una danza interminabile, zanna contro spada.

Ed è qui che la saga di Andrzej Sapkowski, l’autore polacco che ha creato la saga del witcher, rivela la prima sorpresa, perché in questo caso il paladino è il mostro.

Nel mondo creato da Sapkowski, infatti, i witcher nascono nei tempi antichi come una classe guerriera per proteggere l’umanità dagli abomini giunti sul pianeta dopo la congiunzione delle sfere. Non è una setta elitaria, in quanto si tratta quasi sempre di orfani, o di bambini “vinti” come ricompensa o comprati da famiglie povere, a cui un witcher adulto somministra particolari pozioni alchemiche. Il rito purtroppo uccide la maggior parte degli iniziati, ed è anche per questo che i witcher sono una razza in estinzione, mentre nei pochi superstiti attiva una mutazione che trasforma l’umano in un essere più forte, resistente, dai sensi potenziati, una sorta di monstrum, appunto, che il consesso dei “normali” guarderà sempre con un misto di ammirazione e ripugnanza. Infine, visto che nel mondo di Sapkowski ogni dono chiede qualcosa in pegno, la mutazione priva il witcher non solo della fertilità ma anche di ogni emozione. O almeno così dice la vulgata, perché il nostro antieroe, non un paladino in armatura splendente ma un reietto vestito di pelle nera come la notte e borchie, è in realtà un’anima tormentata, che più che non provare emozioni fa di tutto per nasconderle. Come se parte di quel bambino fosse sopravvissuta alle mutazioni, Geralt, durante i suoi viaggi, cerca continuamente l’integrazione in un mondo spietato, quasi un ucronico Far West in cui spesso i mostri a cui dà la caccia (per denaro, si intende) si rivelano meno spietati degli uomini. Uguale e diverso da loro, il Lupo Bianco si muove incerto fra gli umani, gli stessi che hanno prima stretto un’alleanza con gli elfi, razza antica, ricca e sapiente, massacrandoli poi con una colossale epurazione, spingendo i pochi superstiti agli angoli del mondo. E, detta fra parentesi, se questo vi ricorda ancora le tribù dei nativi americani credo siate sulla strada giusta.

La serie di The Witcher in questo mantiene fede alla creazione di Sapkowksi: contiene interi mondi, e chiaramente qui non possiamo che raccontarne una piccolissima parte (anche perché la serie, che si muove fra luci e ombre, a oggi non è ancora conclusa e come se non bastasse il protagonista Henry Cavill sarà sostituito, due “dettagli” non da poco). The Witcher attinge dai romanzi e dai videogiochi che narrano le gesta di Geralt of Rivia, outsider che rotola lungo una terra popolata da bardi cantastorie, elfi revanchisti che attirano gli umani in guerriglie boschive, due eserciti, Nilfgaard e Cintra, consumati in una lotta impari, la gilda dei maghi assetati di potere e (mal) integrati spesso al servizio di re e regine come consiglieri.

Oltre alla generosità della narrazione, la serie eredita dai libri (e dai videogiochi, fra cui spicca il terzo capitolo, unanimemente ritenuto un capolavoro) altri punti di forza. Com’è noto certa letteratura, così come la fiaba, parla spesso di tempi e luoghi che non esistono per raccontarci in realtà, attraverso la lente dell’epica o dell’affabulazione, il nostro tempo e la nostra terra (una lettura di Morfologia della fiaba di Propp, per chi ancora non lo conosce, risulterà in questo senso edificante). Spesso, soprattutto, si inginocchia in loro difesa, in difesa dei diversi, del popolo degli eternamente fraintesi, delle creature storpie con un patrigno o una matrigna sempre pronti a venderle per quattro marchi, Pollicini e Cenerentole, bambine e bambini malvestiti, in fuga lungo foreste gelate e alla ricerca di una casa di marzapane, un vero e proprio popolo squarciato da una diaspora. Il popolo innumerevole che costituisce le fiabe è sempre, senza saperlo, legato da un filo di luce che riunisce tutti, anche a mille miglia di distanza. Così in The Witcher ci sono vigliacchi ed eroi in declino, principesse spodestate e minoranze senza un porto sicuro a cui approdare, eppure, montalianamente, alla fine “ognuno riconosce i suoi”. Così come l’intero epos di Geralt il solitario si regge su una tanto semplice quanto potentissima e splendida profezia, lasciata cadere nella serie con inusuale eleganza già nel primo episodio della prima stagione. La promessa, finalmente, di un’identità, di un riconoscimento con un altro essere sulla Terra:

la ragazza nel bosco resterà con te per sempre.

In questo rappresentare gli ultimi della terra e il “diverso”, la fiaba, il fantasy e la fantascienza tracciano da sempre strade maestre (nelle parole di Gene Roddenberry, che traduco liberamente: «Star Trek fu un tentativo di affermare che l’umanità raggiungerà maturità e saggezza il giorno in cui inizierà non solo a tollerare le differenze di idee e le diverse forme di vita, ma anche a gioirne»). E in questo anche la serie The Witcher splende particolarmente, essendo incentrata appunto su un “diverso” che cerca, faticosamente, un suo posto nel mondo (perché il senso della lunga saga di Geralt, se la svestiamo dagli effetti speciali non sempre riusciti, da certe ingenuità, da certi riduzioni rispetto ai libri e ai videogames, dall’esigenza di cercare certi colpi di scena, si può davvero riassumere in quest’unica monumentale esigenza). Un mutante che è anche e soprattutto un cavaliere errante, la figura enigmatica e seducente, perché più autentica di qualsiasi re o paladino “tutto d’un pezzo”, di Parsifal il cercatore, come tale perennemente portatore di una ferita insanata e insanabile, personaggio perennemente irrisolto perché alla continua ricerca di una “cura”.

Eppure il cerchio alla fine si chiude, e lo fa con un colpo di genio narrativo visto che i witcher, come detto, sono tutti sterili. E si chiude quando Geralt “trova” davvero quella ragazza nel bosco. Si realizzerà davvero la profezia e la principessa spodestata Ciri, leoncina di Cintra, sceglierà di restare con Geralt per sempre, con lui per sempre anche quando si sentirà pronta per tirare la maniglia della porta e per uscire di scena, diventando una donna adulta, indipendente. Resterà con lui per sempre, così lontana e così vicina, proprio come finiscono per esserlo sempre i figli.